Viandante
Camminava a testa bassa, con passo affrettato, cercando di calpestare più aiuole possibili. La pioggia si spiaccicava dolcemente sull’asfalto nero, il vento sibilava da un orecchio all’altro senza trovare ostacoli, il cervello era in folle.
La strada deserta pareva dimenticarsi di scorrere, mentre il niente fagocitava le nuvole pronte a saettare tempesta. Il fiume se ne stava fermo al semaforo verde, aspettando che la cascata finisse; i lampioni erano spenti al massimo e la luce che profondevano era di un buio che abbagliava.
Poteva sembrare un quadro piuttosto imbarazzante per chi lo osservava, ma molto affascinante per tutti gli altri. D’improvviso, come la fucilata di un cecchino, apparve una collina altissima. Verde dei prati che la ricoprivano, si stagliava contro le nubi grigie che ne celavano la cima. Era avvolta da un bagliore algido, una specie di aurora palpabile che risaltava le sue forme e ne distorceva i colori. Sui pendii vi erano appoggiati milioni di papaveri, come graziose efelidi pronte ad andarsene al primo soffio di vento. Un sentiero apriva a metà il prato invitando i viandanti a percorrerlo.
Si incamminò attirato da quel cucuzzolo che non poteva vedere e dopo molti passi si trovò di fronte un albero: un gigantesco platano dalle foglie di larice che, però, parlava come una quercia da sughero.
- Vorrei sapere da te, viandante, quale sarà la strada che il tuo passo calpesterà.
Il viandante non si preoccupò affatto che a parlare fosse un albero, ma piuttosto si chiese come mai la sua corteccia era celeste. Pensò fosse il caso di ignorarlo e proseguì lungo il sentiero che, dopo pochi metri, spariva per comparire esattamente dietro di lui. Si girò, ma non tornò sui propri passi. Aveva perso la cognizione di qualsiasi cosa, tranne del tempo, quindi decise di proseguire per l’unica strada possibile.
Alla sua destra il prato si perdeva in una distesa di viole color argento; stavano intonando un nostalgico inno a chissà cosa o a chi. Si tappò le orecchie col sughero della quercia e continuò a marciare. La salita era impietosa col fiato dell’uomo che si fermò un istante a guardare. Sull’altro crinale spiccavano dei salti, ma non ci fece caso più di tanto. Leggermente spostato sulla sinistra, un enorme cervo brucava il trifoglio sputando di tanto in tanto le foglie più secche. Il viandante si chiese dove andasse ad abbeverarsi il cervo, visto che lì, sulla collina non vi erano fonti. L’animale, con la possenza della sua voce fiera, gli consigliò di raggiungere la vetta, perché lassù avrebbe avuto risposta alla sua domanda banale.
Arrivò al limitar delle nuvole che coprivano la cima. Era stanco, esausto, disidratato e preoccupato per quelle povere viole malinconiche. Non sapeva come affrontare il poco cammino che gli rimaneva. Decise d’istinto: prese la rincorsa, sfondò il cupo delle nuvole e sfidò la cima ad occhi chiusi.
Rabbrividiva al pensiero di riaprire gli occhi, non poteva immaginare cosa si sarebbe trovato davanti. Forse la più grande delle rivelazioni, oppure una delusione inconsolabile. O magari semplicemente una mandria di cervi che si abbeveravano. Chissà, ci sarebbe potuto essere l’altro famigerato lato… Il dubbio attanagliava la curiosità, ma le palpebre erano ancora chiuse, saldate una contro l’altra, impreparate all’ignoto che la cima celava. E se dietro la sottile cortina di pelle che oscurava le pupille, si fosse celata la più cruda delle verità? L’uomo tese le orecchie, come se il vento potesse consigliarlo, ma non gli giunse alcuna voce. Rimase così ad osservare il suo buio per altri lunghissimi minuti, magari la cima si sarebbe stufata e se ne sarebbe andata, ma non successe niente. Era semplice, doveva prendere il coraggio per il bavero e sforzarsi di aprire gli occhi.
Invece si girò, sfondò nuovamente le nuvole e dando le spalle alla cima spalancò le palpebre. Si mise a correre forsennatamente giù per il sentiero.
Ridendo, urlando, piangendo e quasi volando, si ritrovò ancora a camminare a testa bassa, con passo affrettato, cercando di calpestare più aiuole possibili. E con il cervello in folle.
La strada deserta pareva dimenticarsi di scorrere, mentre il niente fagocitava le nuvole pronte a saettare tempesta. Il fiume se ne stava fermo al semaforo verde, aspettando che la cascata finisse; i lampioni erano spenti al massimo e la luce che profondevano era di un buio che abbagliava.
Poteva sembrare un quadro piuttosto imbarazzante per chi lo osservava, ma molto affascinante per tutti gli altri. D’improvviso, come la fucilata di un cecchino, apparve una collina altissima. Verde dei prati che la ricoprivano, si stagliava contro le nubi grigie che ne celavano la cima. Era avvolta da un bagliore algido, una specie di aurora palpabile che risaltava le sue forme e ne distorceva i colori. Sui pendii vi erano appoggiati milioni di papaveri, come graziose efelidi pronte ad andarsene al primo soffio di vento. Un sentiero apriva a metà il prato invitando i viandanti a percorrerlo.
Si incamminò attirato da quel cucuzzolo che non poteva vedere e dopo molti passi si trovò di fronte un albero: un gigantesco platano dalle foglie di larice che, però, parlava come una quercia da sughero.
- Vorrei sapere da te, viandante, quale sarà la strada che il tuo passo calpesterà.
Il viandante non si preoccupò affatto che a parlare fosse un albero, ma piuttosto si chiese come mai la sua corteccia era celeste. Pensò fosse il caso di ignorarlo e proseguì lungo il sentiero che, dopo pochi metri, spariva per comparire esattamente dietro di lui. Si girò, ma non tornò sui propri passi. Aveva perso la cognizione di qualsiasi cosa, tranne del tempo, quindi decise di proseguire per l’unica strada possibile.
Alla sua destra il prato si perdeva in una distesa di viole color argento; stavano intonando un nostalgico inno a chissà cosa o a chi. Si tappò le orecchie col sughero della quercia e continuò a marciare. La salita era impietosa col fiato dell’uomo che si fermò un istante a guardare. Sull’altro crinale spiccavano dei salti, ma non ci fece caso più di tanto. Leggermente spostato sulla sinistra, un enorme cervo brucava il trifoglio sputando di tanto in tanto le foglie più secche. Il viandante si chiese dove andasse ad abbeverarsi il cervo, visto che lì, sulla collina non vi erano fonti. L’animale, con la possenza della sua voce fiera, gli consigliò di raggiungere la vetta, perché lassù avrebbe avuto risposta alla sua domanda banale.
Arrivò al limitar delle nuvole che coprivano la cima. Era stanco, esausto, disidratato e preoccupato per quelle povere viole malinconiche. Non sapeva come affrontare il poco cammino che gli rimaneva. Decise d’istinto: prese la rincorsa, sfondò il cupo delle nuvole e sfidò la cima ad occhi chiusi.
Rabbrividiva al pensiero di riaprire gli occhi, non poteva immaginare cosa si sarebbe trovato davanti. Forse la più grande delle rivelazioni, oppure una delusione inconsolabile. O magari semplicemente una mandria di cervi che si abbeveravano. Chissà, ci sarebbe potuto essere l’altro famigerato lato… Il dubbio attanagliava la curiosità, ma le palpebre erano ancora chiuse, saldate una contro l’altra, impreparate all’ignoto che la cima celava. E se dietro la sottile cortina di pelle che oscurava le pupille, si fosse celata la più cruda delle verità? L’uomo tese le orecchie, come se il vento potesse consigliarlo, ma non gli giunse alcuna voce. Rimase così ad osservare il suo buio per altri lunghissimi minuti, magari la cima si sarebbe stufata e se ne sarebbe andata, ma non successe niente. Era semplice, doveva prendere il coraggio per il bavero e sforzarsi di aprire gli occhi.
Invece si girò, sfondò nuovamente le nuvole e dando le spalle alla cima spalancò le palpebre. Si mise a correre forsennatamente giù per il sentiero.
Ridendo, urlando, piangendo e quasi volando, si ritrovò ancora a camminare a testa bassa, con passo affrettato, cercando di calpestare più aiuole possibili. E con il cervello in folle.
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